La privacy non va in quarantena. Una doverosa riflessione.

Nella distanza obbligata, c’è ancora un’ancora di salvezza: internet. Se l’approccio fisico è infatti messo in standby, relegato all’interno di casa, ora troviamo la nostra estensione sociale nel web. Eppure, in questa emergenza, in molti sembrano non saper più distinguere il confine tra reale e virtuale. E finiscono, inconsciamente, per perdere quell’approccio concreto con la realtà, confondendo l’effettivo bisogno di contatto con l’insensata diffidenza verso il prossimo, il dovere civico di prevenzione con la paura irrazionale e cieca. E si assiste a pericolose iniziative di devianza sociale.

Sono molti, troppi, i giustizieri della notte che cercano, infatti, di dare un nome ed un viso certo ai nostri timori, al nemico invisibile. Individuandolo di volta in volta nell’anziano che pratica esercizio fisico, nella famigliola in passeggiata nei pressi di casa o anche solo in chi esce con la propria macchina. Immortalandoli con tanto di foto corredata da commento colorito, quasi istigante l’odio, lasciato alla gogna mediatica dei social, divenuti oramai tribunali della giustizia collettiva.

Giustizia è quindi fatta? Non proprio.

Oltre a rischiare di beccarvi una denuncia per diffamazione (link), ricordatevi che con questi scatti state violando anche la privacy di quelle persone.

Le misure poste a tutela della sfera privata di ognuno di noi non possono, dunque, essere messe in discussione. Neppure nel contesto di un’emergenza.

L’emergenza sanitaria non ha, infatti, mai sospeso il rispetto dell’altrui riservatezza e reputazione. Per cui non potete divulgare (non importa se sui social, via mail o su Whatsup) i dati personali e sensibili che identificano quella determinata persona (volto, targa o numero civico) senza il suo espresso consenso. Nemmeno per denunciare presunti illeciti.

Cosa fare allora in questi casi?

Se siete stanchi di vedere persone che a vostro parere infrangono la legge, non cadete nella tentazione di fare gli sceriffi della situazione, sentenziando ancor prima di sapere perché quella persona si trova fuori casa (quello che pratica jogging potrebbe farlo su precisa indicazione medica, la famigliola per consentire ‘un’ora d’aria’ al proprio bimbo, quello che esce in macchina, lo fa per recarsi al lavoro in ospedale perché magari fa il medico). Fate semmai una segnalazione alle Autorità Competenti.

E se venite a sapere di qualche collega, compaesano o conoscente affetto da coronavirus?

Evitate, anche qui, di istigare una vera e propria caccia all’untore, palesando nomi e identità dei contagiati. La pandemia non apre a deroghe né tantomeno legittima la raccolta di dati fai da te. È nell’interesse di tutti frenare la diffusione del virus, ma l’accertamento e la divulgazione di informazioni relative ai positivi COVID-19 spettano solo agli operatori sanitari e al sistema attivato dalla protezione civile. Che sono gli unici organi deputati a garantire il rispetto delle regole di sanità pubblica.

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